Reggio Calabria nella sua attuale configurazione fisica è una città dalla storia breve: segnata dagli eventi sismici del 1783 e del 1908, nonché dalle scelte dei piani di ricostruzione che hanno in pratica azzerato il passato. Da quel momento di azzeramento in poi la storia della ricostruzione e in generale della costruzione della città si configura in una sorta di “costruire contro”: contro la continuità della storia passata, contro un progetto radicato di futuro, contro le condizioni reali (la domanda reale), contro le previsioni urbanistiche (la domanda supposta), contro le regole istituzionali, contro la morfologia, contro l’urbs e contro la civitas. Ripercorrere questa storia può forse aiutare a comprendere meglio gli elementi oggetto della ricerca poiché le forme dello spazio pubblico sono il segnale rilevatore e rivelatore del rapporto tra urbs e civitas. Il sisma del 1783, che distrugge l’antico centro medievale, diventa occasione per ricostruire la città secondo i criteri funzionali e distributivi messi a punto negli ambienti accademici “illuministi” dell’epoca. La ricostruzione si basa sul Piano disegnato dall’ing. Mori. In questa fase Reggio riceve quei caratteri informatori della propria crescita che segneranno il suo futuro sviluppo: • la maglia ortogonale, che tutt’ora regola il tracciato delle parti centrali, costituirà per lungo tempo il confine tra centro e periferia, • la centralità dell’affaccio a mare che “oltre a modificare l’essenza spaziale di quest’ambito, tende a trasformare un centro agricolo in una città progettata in rapporto con il mare”. Il terremoto del 28 dicembre del 1908, in cui perirono 12.000 persone su una popolazione di 45.000 abitanti, rese inagibile il 95% del patrimonio edilizio. Nel periodo immediatamente successivo al sisma si costruì “la città di legno”: 3715 baracche diedero risposta all’emergenza. Il progetto di un nuovo Piano di Ricostruzione della città da elaborare in tempi brevi e in ottemperanza alle normative antisismiche vigenti all’epoca, venne affidato all’ing. De Nava, assessore ai lavori pubblici del comune. Il Piano, presentato nel 1909, viene approvato nel 1911 e definitivamente nel 1914 e limita la città tra i confini naturali dei due torrenti Calopinace a Sud e Montevergine a Nord e con la Via Reggio Campi ad Est. Il Piano modifica la struttura del “centro storico” sostituendo i precedenti tracciati irregolari, nell’area del Castello Aragonese, con la consueta maglia ortogonale. Lo stesso tessuto a scacchiera è riutilizzato per le aree di espansione a Nord e a Sud della città; l’adattarsi della maglia alla morfologia del territorio, nella zona collinare ad Est, rappresenta il supporto per molti episodi urbanistici ed edilizi che si realizzeranno tra il 1920 e il 1940. La specializzazione funzionale prevista nel piano per le diverse zone della città si articola nelle diverse destinazioni: • burocratico-amministrativa, oltre che residenziale, per il centro • commerciale-industriale per il nuovo quartiere previsto in adiacenza al porto (S.Caterina), • residenziale-intensiva per le altre aree del centro • residenziale-estensiva nelle zone adiacenti al prolungamento dell’asse centrale del Corso. Il Piano De Nava rimane lo strumento urbanistico vigente fino al 1969; anche se a questo vennero apportate numerose modifiche tra le quali è da sottolineare quella della Via Marina nel 1914, alla cui definizione contribuirono gli architetti E. Basile e C. Autore. Nel periodo fascista nasce il programma della “Grande Reggio”, che si concretizza nell’aggregazione di 14 comuni e si esplicita nella definizione di programmi economici, urbanistici e sociali finalizzati alla creazione di una nuova centralità dell’area reggina a scala regionale. L’idea, per alcune versi anticipatrice di proposte future, era quella di realizzare un’unica città costiera di circa 30 km di lunghezza, in cui non solo Reggio, ma anche gli altri comuni avrebbero goduto gli effetti di un nuovo progresso economico e risentito dei benefici sociali derivanti dall’acquisita centralità. La dicotomia tra città “ideale” come elemento trainante dello sviluppo e città “reale”, che si dibatteva tra debolezze economico-realizzative di fondo e contraddizioni socialmente irrisolvibili, fu il limite principale alla realizzazione del progetto. Nel periodo che va dal 1950 al 1970 all’assenza di politiche strategiche sotto il profilo urbanistico, corrispondono profonde trasformazioni socio-economiche: la crisi del settore primario e il conseguente fenomeno dell’emigrazione rendono la città di Reggio “esemplare” nella più complessa questione urbana del Mezzogiorno. Alla fine degli anni ‘60 si dà avvio alla redazione dello strumento urbanistico generale all’oggi ancora vigente. Il Piano Quaroni nelle sue direttive generali assumeva le ipotesi avanzate nel Progetto 80 della “conurbazione dello Stretto”, impostate su alcuni “nodi strategici”: • il Centro Direzionale Continentale (sul versante calabro) e Insulare (sul versante siculo), • l’aeroporto di livello internazionale nell’area di Reggio, • i porti di Reggio, Messina e Villa S.Giovanni per il trasporto passeggeri • i porti di Milazzo e di Pellaro (a sud di Reggio) per il trasporto delle merci. La filosofia ispiratrice del Piano trova quindi nell’ipotesi dell’attraversamento stabile dello Stretto, il suo cardine e le ipotesi di assetto che ne derivano, si strutturano in un disegno di città lineare che trova i suoi elementi di forza nei tracciati viari e in una serie di aree strategiche di grande scala: • a Nord, con le aree destinate a divenire elementi di connessione e di cerniera per la creazione della conurbazione, • a Sud, con l’asse industria-agricoltura, destinato ad essere la struttura portante dello sviluppo economico della città e del territorio circostante. • sulla fascia litoranea con una trasformazione turistica incentrata sulla realizzazione di due porti turistici. Il Piano Quaroni si proponeva obiettivi forse troppo ambiziosi in rapporto alla reale situazione politica e organizzativa delle strutture decisionali. La gestione del piano è stata operata in modo frammentario, frazionando gli interventi attuativi con localizzazioni scelte secondo le necessità temporali: • la realizzazione dei piani attuativi è avvenuta in modo parziale e unicamente per la parte relativa all’edilizia privata; • le aree di sviluppo industriale localizzate in tre punti “nevralgici” sono spesso spazi irrisolti; • la tangenziale a scorrimento veloce è spesso raccordata alla città da “bretelle” spontanee nate dalle esigenze di raccordo di interi quartieri abusivi ed è essa stessa divenuta una sorta di arteria di connessione-distribuzione con alto grado di pericolosità; • i nuovi spazi funzione (Palazzo della Regione, Città universitaria, Centro Direzionale, ecc.) sono stati ubicati, in variante, in zone che contraddicono l’intendimento di raccordo territoriale verso Nord. Conseguentemente il Piano non è stato il tramite delle politiche edilizie ed urbanistiche della città. Il sottile filo che legava fino agli anni ’80 la gestione delle trasformazioni all’idea di piano è ormai definitivamente spezzato: la constatazione è che di fatto un diverso assetto caratterizza oggi la città. La nuova città si è sviluppata al di fuori di ogni regola urbanistica: la dimensione del fenomeno dell’abusivismo, 22.000 casi nel 1992, 45.000 nel 1995, è talmente rilevante da documentare essa stessa un’incapacità di gestione e di controllo e comunque la realizzazione di “un’altra città”. Come risulta evidente dal breve excursus storico, la rottura della continuità riguarda in particolare due processi pianificati: il Piano De Nava e il Piano Quaroni. Le reali urbanizzazioni sono avvenute a macchia di leopardo. L’antipiano post De Nava e l’antipiano post Quaroni propongono essenzialmente “edificazioni senza urbanizzazioni”, mentre la realizzazione delle attrezzature, attuata per varianti parziali, risulta indifferente a logiche sistemiche strutturali e priva di elementi qualificanti di relazione con il contesto. Reggio Calabria è, quindi, un caso emblematico della separazione metodologica o frattura pratica tra storia della comunità (reggina), tra continuità delle forme sociali e funzioni urbane, storia della città/interruzione e azzeramento delle forme fisiche.

Ricostruzioni: formazione della struttura urbana in relazione agli eventi sismici del 1783 e del 1908

CAMPANELLA, Raffaella
2004-01-01

Abstract

Reggio Calabria nella sua attuale configurazione fisica è una città dalla storia breve: segnata dagli eventi sismici del 1783 e del 1908, nonché dalle scelte dei piani di ricostruzione che hanno in pratica azzerato il passato. Da quel momento di azzeramento in poi la storia della ricostruzione e in generale della costruzione della città si configura in una sorta di “costruire contro”: contro la continuità della storia passata, contro un progetto radicato di futuro, contro le condizioni reali (la domanda reale), contro le previsioni urbanistiche (la domanda supposta), contro le regole istituzionali, contro la morfologia, contro l’urbs e contro la civitas. Ripercorrere questa storia può forse aiutare a comprendere meglio gli elementi oggetto della ricerca poiché le forme dello spazio pubblico sono il segnale rilevatore e rivelatore del rapporto tra urbs e civitas. Il sisma del 1783, che distrugge l’antico centro medievale, diventa occasione per ricostruire la città secondo i criteri funzionali e distributivi messi a punto negli ambienti accademici “illuministi” dell’epoca. La ricostruzione si basa sul Piano disegnato dall’ing. Mori. In questa fase Reggio riceve quei caratteri informatori della propria crescita che segneranno il suo futuro sviluppo: • la maglia ortogonale, che tutt’ora regola il tracciato delle parti centrali, costituirà per lungo tempo il confine tra centro e periferia, • la centralità dell’affaccio a mare che “oltre a modificare l’essenza spaziale di quest’ambito, tende a trasformare un centro agricolo in una città progettata in rapporto con il mare”. Il terremoto del 28 dicembre del 1908, in cui perirono 12.000 persone su una popolazione di 45.000 abitanti, rese inagibile il 95% del patrimonio edilizio. Nel periodo immediatamente successivo al sisma si costruì “la città di legno”: 3715 baracche diedero risposta all’emergenza. Il progetto di un nuovo Piano di Ricostruzione della città da elaborare in tempi brevi e in ottemperanza alle normative antisismiche vigenti all’epoca, venne affidato all’ing. De Nava, assessore ai lavori pubblici del comune. Il Piano, presentato nel 1909, viene approvato nel 1911 e definitivamente nel 1914 e limita la città tra i confini naturali dei due torrenti Calopinace a Sud e Montevergine a Nord e con la Via Reggio Campi ad Est. Il Piano modifica la struttura del “centro storico” sostituendo i precedenti tracciati irregolari, nell’area del Castello Aragonese, con la consueta maglia ortogonale. Lo stesso tessuto a scacchiera è riutilizzato per le aree di espansione a Nord e a Sud della città; l’adattarsi della maglia alla morfologia del territorio, nella zona collinare ad Est, rappresenta il supporto per molti episodi urbanistici ed edilizi che si realizzeranno tra il 1920 e il 1940. La specializzazione funzionale prevista nel piano per le diverse zone della città si articola nelle diverse destinazioni: • burocratico-amministrativa, oltre che residenziale, per il centro • commerciale-industriale per il nuovo quartiere previsto in adiacenza al porto (S.Caterina), • residenziale-intensiva per le altre aree del centro • residenziale-estensiva nelle zone adiacenti al prolungamento dell’asse centrale del Corso. Il Piano De Nava rimane lo strumento urbanistico vigente fino al 1969; anche se a questo vennero apportate numerose modifiche tra le quali è da sottolineare quella della Via Marina nel 1914, alla cui definizione contribuirono gli architetti E. Basile e C. Autore. Nel periodo fascista nasce il programma della “Grande Reggio”, che si concretizza nell’aggregazione di 14 comuni e si esplicita nella definizione di programmi economici, urbanistici e sociali finalizzati alla creazione di una nuova centralità dell’area reggina a scala regionale. L’idea, per alcune versi anticipatrice di proposte future, era quella di realizzare un’unica città costiera di circa 30 km di lunghezza, in cui non solo Reggio, ma anche gli altri comuni avrebbero goduto gli effetti di un nuovo progresso economico e risentito dei benefici sociali derivanti dall’acquisita centralità. La dicotomia tra città “ideale” come elemento trainante dello sviluppo e città “reale”, che si dibatteva tra debolezze economico-realizzative di fondo e contraddizioni socialmente irrisolvibili, fu il limite principale alla realizzazione del progetto. Nel periodo che va dal 1950 al 1970 all’assenza di politiche strategiche sotto il profilo urbanistico, corrispondono profonde trasformazioni socio-economiche: la crisi del settore primario e il conseguente fenomeno dell’emigrazione rendono la città di Reggio “esemplare” nella più complessa questione urbana del Mezzogiorno. Alla fine degli anni ‘60 si dà avvio alla redazione dello strumento urbanistico generale all’oggi ancora vigente. Il Piano Quaroni nelle sue direttive generali assumeva le ipotesi avanzate nel Progetto 80 della “conurbazione dello Stretto”, impostate su alcuni “nodi strategici”: • il Centro Direzionale Continentale (sul versante calabro) e Insulare (sul versante siculo), • l’aeroporto di livello internazionale nell’area di Reggio, • i porti di Reggio, Messina e Villa S.Giovanni per il trasporto passeggeri • i porti di Milazzo e di Pellaro (a sud di Reggio) per il trasporto delle merci. La filosofia ispiratrice del Piano trova quindi nell’ipotesi dell’attraversamento stabile dello Stretto, il suo cardine e le ipotesi di assetto che ne derivano, si strutturano in un disegno di città lineare che trova i suoi elementi di forza nei tracciati viari e in una serie di aree strategiche di grande scala: • a Nord, con le aree destinate a divenire elementi di connessione e di cerniera per la creazione della conurbazione, • a Sud, con l’asse industria-agricoltura, destinato ad essere la struttura portante dello sviluppo economico della città e del territorio circostante. • sulla fascia litoranea con una trasformazione turistica incentrata sulla realizzazione di due porti turistici. Il Piano Quaroni si proponeva obiettivi forse troppo ambiziosi in rapporto alla reale situazione politica e organizzativa delle strutture decisionali. La gestione del piano è stata operata in modo frammentario, frazionando gli interventi attuativi con localizzazioni scelte secondo le necessità temporali: • la realizzazione dei piani attuativi è avvenuta in modo parziale e unicamente per la parte relativa all’edilizia privata; • le aree di sviluppo industriale localizzate in tre punti “nevralgici” sono spesso spazi irrisolti; • la tangenziale a scorrimento veloce è spesso raccordata alla città da “bretelle” spontanee nate dalle esigenze di raccordo di interi quartieri abusivi ed è essa stessa divenuta una sorta di arteria di connessione-distribuzione con alto grado di pericolosità; • i nuovi spazi funzione (Palazzo della Regione, Città universitaria, Centro Direzionale, ecc.) sono stati ubicati, in variante, in zone che contraddicono l’intendimento di raccordo territoriale verso Nord. Conseguentemente il Piano non è stato il tramite delle politiche edilizie ed urbanistiche della città. Il sottile filo che legava fino agli anni ’80 la gestione delle trasformazioni all’idea di piano è ormai definitivamente spezzato: la constatazione è che di fatto un diverso assetto caratterizza oggi la città. La nuova città si è sviluppata al di fuori di ogni regola urbanistica: la dimensione del fenomeno dell’abusivismo, 22.000 casi nel 1992, 45.000 nel 1995, è talmente rilevante da documentare essa stessa un’incapacità di gestione e di controllo e comunque la realizzazione di “un’altra città”. Come risulta evidente dal breve excursus storico, la rottura della continuità riguarda in particolare due processi pianificati: il Piano De Nava e il Piano Quaroni. Le reali urbanizzazioni sono avvenute a macchia di leopardo. L’antipiano post De Nava e l’antipiano post Quaroni propongono essenzialmente “edificazioni senza urbanizzazioni”, mentre la realizzazione delle attrezzature, attuata per varianti parziali, risulta indifferente a logiche sistemiche strutturali e priva di elementi qualificanti di relazione con il contesto. Reggio Calabria è, quindi, un caso emblematico della separazione metodologica o frattura pratica tra storia della comunità (reggina), tra continuità delle forme sociali e funzioni urbane, storia della città/interruzione e azzeramento delle forme fisiche.
2004
88-87935-58-0
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.12318/8609
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